Blog ed Approfondimenti 

mar

22

dic

2015

Il senso del ritmo è cruciale per il linguaggio

Il senso del ritmo è strettamente connesso alla comprensione della lingua parlata. Lo dimostra uno studio che fa intravedere nuove strade d'intervento terapeutico per persone con difficoltà di lettura: un addestramento di tipo musicale, con particolare attenzione per la componente ritmica, potrebbe aiutare per rendere più solide le associazioni suono-significato che sono essenziali per l'apprendimento del linguaggio.

Musica, senso del ritmo e capacità linguistiche: per il nostro cervello questi tre elementi sono strettamente collegati. Lo dimostra uno studio apparso sul “Journal of Neuroscience” e firmato da un gruppo di ricercatori della Northwestern University guidati da Nina Kraus, direttrice del Laboratorio di neuroscienze uditive, in base a una serie di test su un centinaio di studenti di scuola superiore.

In particolare, lo studio dimostra per la prima volta l'esistenza di un collegamento neurobiologico tra la capacità di tenere il ritmo e quella di codificare i suoni della lingua parlata, con significative ricadute, per quanto è possibile prevedere, sulle capacità di lettura.

In passato una ricerca della stessa Kraus  aveva stabilito una connessione sia tra capacità di lettura e senso del ritmo, sia tra capacità di lettura e coerenza delle risposte neurali.

“Con questo risultato abbiamo chiuso il triangolo, per così dire”, sottolinea la Kraus. “Alla base di tutto c'è una sincronizzazione tra le regioni cerebrali responsabili dell'udito e quelle del movimento”.

Il metronomo è uno strumento utilizzato dai musicisti per migliorare la capacità di tenere il ritmo mentre suonano. Chi è in grado di seguire più accuratamente i suoi rintocchi dimostra anche una maggiore coerenza delle onde cerebrali nell'udire la lingua parlata. Nel primo test, ai ragazzi veniva richiesto di seguire il ritmo di un metronomo picchiettando con le dita su una superficie, sotto alla quale erano posti dei sensori che permettevano di misurare la precisione del battito. Nel secondo test, sugli stessi studenti veniva effettuato un elettroencefalogramma in grado di mostrare la coerenza delle loro risposte cerebrali mentre udivano una sillaba ripetuta più volte.

Dal confronto dei dati registrati, è emerso che coloro che dimostravano le migliori capacità di mantenere il ritmo erano anche quelli che mostravano le risposte cerebrali più coerenti nella pronuncia delle sillabe.

“Questa correlazione ha una precisa base neurobiologica”, spiega Kraus. “Le onde cerebrali che misuriamo con l'elettroencefalogramma hanno origine da un centro cerebrale di elaborazione delle informazioni uditive con connessioni reciproche con i centri motori. Quindi un'attività che richiede la coordinazione dell'udito e del movimento, probabilmente, è collegata a una solida e accurata comunicazione tra diverse regioni cerebrali”.

Per gli autori, è immediato pensare a nuovi metodi per aiutare i soggetti dislessici a superare le difficoltà di lettura. “Il ritmo è parte integrante sia della musica sia del linguaggio, e in particolare il ritmo del linguaggio parlato è cruciale per la comprensione”, conclude la Kraus. Parlando, per esempio, si rallenta il ritmo per sottolineare una parola o un concetto; inoltre, lievi differenze di ritmo permettono di distinguere la 'b' dalla 'p': percepire le differenze di ritmo significa quindi saper identificare e distinguere i suoni e, in ultima istanza,  comprendere il linguaggio”.

L'idea dei ricercatori è che un addestramento di tipo musicale, con una particolare attenzione per la componente ritmica, possa essere di aiuto per rendere più efficiente il sistema uditivo, portando così il soggetto a più solide associazioni suono-significato che sono essenziali per l'apprendimento e le capacità di lettura.

 

mar

22

dic

2015

Linguaggio e Cervello

 

Utilizzata la risonanza magnetica per studiare i problemi di ritardo nel linguaggio. I bambini caratterizzati da una dialettica carente tendono ad ascoltare con la parte destra...

I bambini affetti da ritardo nel linguaggio tendono ad ascoltare con la parte destra del cervello piuttosto che con quella sinistra. È il risultato di una ricerca (2003) della “Radiological Society of North America” condotta utilizzando, per la prima volta, la risonanza magnetica funzionale per indagare l'attività del cervello associata al ritardo della parola.

La ricerca, effettuata su 17 bambini con problemi di linguaggio e 35 bambini sani con una media di 4 anni e mezzo, si è basata sul paragone tra i meccanismi d'attivazione cerebrale dei due gruppi.

Come non ascoltare la mamma. Per studiare la reazione del cervello al linguaggio passivo, ai bambini è stato chiesto di ascoltare audiocassette con le voci delle loro madri.

I risultati hanno dimostrato che i volontari con gravi problemi di ritardo nel linguaggio hanno livelli più alti di attività cerebrale nell'emisfero destro (la parte predisposta di norma alle funzioni visivo-spaziali), mentre i bambini con un funzionamento della parola normale utilizzano l'emisfero sinistro, predisposto proprio alle funzioni verbali. In più, è stato registrato che i primi hanno una attivazione del cervello minore rispetto al gruppo di controllo e che, dunque, sono meno recettivi al linguaggio.

Di solito i bambini pronunciano le loro prime parole a circa 1 anno di età, e a 2anni e mezzo o 3 formulano le prime frasi semplici. Secondo i ricercatori, se un bambino di 1 anno non ha ancora emesso suoni verbali oppure se le sue parole sono estremamente poco chiare, è meglio che i genitori consultino uno specialista.

Secondo i ricercatori che hanno effettuato la ricerca, in presenza di ritardo nel linguaggio è meglio intervenire prima possibile. La risonanza magnetica sembra essere un buon metodo per diagnosticare le difficoltà di questo genere, sebbene il ritardo nel linguaggio può essere provocato anche da altri fattori, tra cui problemi emotivi e comportamentali, complicazioni di nascita, spaccature su labbra e palato, perdita dell'udito e altro.

mar

22

dic

2015

Dislessia: valutare le capacità di Attenzione Visiva per prevenirla

Da rassegna stampa di Serena Mancioppi 11 Aprile 2012

 

 Secondo un nuovo studio pubblicato su Current Biology la diagnosi di dislessia può essere fatta ancor prima che un bambino impari a leggere; sembra infatti che deficit di attenzione visiva siano predittivi di successivi disturbi nella lettura, più di quanto lo siano le capacità linguistiche in fase di pre-lettura. Secondo Andrea Facoetti dell’Università degli Studi di Padova questa scoperta mette fine a un lungo periodo di dibattito sulle cause della dislessia e apre la strada a un nuovo pioneristico approccio per l’identificazione precoce e l’intervento in quel 10% dei bambini che lottano con difficoltà di lettura estreme.

Per un periodo di tre anni i ricercatori hanno studiato i bambini di lingua italiana, dalla fase pre-lettura dell’asilo fino alla seconda elementare. Il team ha valutato le abilità di attenzione visuo-spaziale, cioè la capacità di filtrare l’informazione rilevante da quella irrilevante, l’identificazione sillabica, la memoria verbale a breve termine, e la denominazione rapida del colore, seguita nel corso dei due anni successivi dalla valutazione delle abilità di lettura

 

 

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ven

27

nov

2015

DOLORE  e POSTURA

Il più delle volte ci soffermiamo ad “ascoltare” e percepire il nostro corpo solo nel momento in cui percepiamo dolore.

 In genere riusciamo ad indicare o dare un nome alla parte del corpo per lo più se questa è interessata dal dolore. Ma cos’è il dolore? Da dove deriva? Come agisce? Su cosa agisce?

Secondo l’IASP (International Association of the Study of Pain): “Il dolore è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno”. Ma per chiunque, il dolore è semplicemente una sensazione spiacevole di sofferenza fisica. Si tratta di una sensazione soggettiva, che ognuno di noi apprende attraverso le proprie esperienze fin dai primi momenti di vita.

Nello specifico, il dolore, è una strategia difensiva messa in atto dal sistema sensoriale per segnalare un pericolo immediato e salvaguardare il corpo dalle “minacce” esterne. È’ una sensazione COMPLESSA che non deriva soltanto da uno STMOLO NOCICETTIVO (ovvero proveniente dalla stimolazione di un recettore specifico detto nocicettore che riconosce un possibile danno di origine termico, meccanico o chimico ai tessuti), ma coinvolge anche il SISTEMA SENSORIALE-DISCRIMINATIVO, la COMPONENTE AFFETTIVO-EMOZIONALE e COGNITIVO-VALUTATIVA. L’organismo, in risposta a questa sensazione di sgradevolezza, ha una perdita dell’omeostasi, che mette in atto delle RISPOSTE MOTORIE RIFLESSE ( contrazione muscolare), NEUROVEGETATIVE (sudorazione, nausea, vomito), IMMUNITARIE, COMPORTAMENTALI.

Il dolore può essere suddiviso in :

DOLORE ACUTO : è di breve durata e di solito ha una causa facilmente diagnosticabile. Questo tipo di dolore ha origine generalmente al di fuori del cervello (nel sistema nervoso periferico), ma viene elaborato e interpretato all’interno del cervello stesso (dal sistema nervoso centrale).

In effetti, il dolore acuto funge da segnale di allarme dell’esistenza di un danno effettivo in siti o in regioni circostanti: ciò che causa il dolore è infatti la normale risposta psicologica a uno stimolo avverso o dannoso. Questo stimolo può essere di natura meccanica (come nel caso di un dolore post-frattura), termica (come nel caso di ustioni) o chimica. Questa condizione mostra una buona risposta agli antidolorifici ed è quindi limitata nel tempo.

 

DOLORE CRONICO: è spesso indipendente dalla causa originale del dolore medesimo. La causa del dolore può anche non esistere più, ma i nervi sovra stimolati segnalano al cervello l’esistenza di un dolore.
In altre circostanze, la causa del dolore può esistere ancora, ma non può essere sempre trattata o rimossa, come accade per le malattie incurabili o persistenti.

La sensazione di dolore dura quindi più a lungo del normale perché una lesione guarisca o una condizione in corso migliori. La percezione del dolore può essere completamente distinta dallo stimolo doloroso originale, cosicché il segnale del dolore ha perso la sua funzione di allarme.

Il dolore costante o intermittente è quindi sopravvissuto spesso al suo scopo: non è più di nessun aiuto all’organismo per prevenire una lesione. Si parla anche di cronicizzazione del dolore, che assume le sembianze di un circolo vizioso, in cui gli stimoli dolorifici non trattati evocano ulteriori risposte dolorose supplementari.

Dunque, il dolore cronico è solitamente molto più difficile da trattare rispetto al dolore acuto. Dovrebbe infatti essere di per sé considerato un’entità patologica.

 

Un buon controllo del dolore acuto dovrebbe essere finalizzato ad evitare la cronicizzazione del dolore (Sandkuhler 2000; Schnitzler et al. 2000). Sono emerse delle evidenze cliniche secondo cui il dolore persistente comporta un danno centrale nel midollo spinale e nel cervello, che genera modifiche permanenti (esperienza dolorosa), anche dopo l’interruzione dello stimolo doloroso.
Pertanto, è importante controllare il dolore nel modo opportuno, al fine di evitare una facile evoluzione verso il dolore cronico non trattabile e la relativa perpetuazione. Occorre dunque parlare al proprio medico del dolore che si avverte.


Dal punto di vista umano, funzionale e neurobiologico, è stato riconosciuto che l’assenza di trattamento del dolore non è giustificata.

La classificazione del dolore può anche essere in base alla causa del dolore, vale a dire ai meccanismi che generano la sensazione dolorosa, o in relazione alla sede in cui origina tale sensazione :

DOLORE NOCICETTIVO : deriva dalla stimolazione da parte di una lesione dei nocicettori, cioè delle terminazioni dei nervi deputati a trasmettere al cervello le sensazioni dolorose. La classificazione del dolore nocicettivo, a seconda della sede della lesione, distingue ulteriormente:

·         Dolore superficiale: causato da lesioni alla pelle o ai tessuti superficiali (graffi, abrasioni, scottature)

·         Dolore somatico profondo: proviene da muscoli, legamenti, tendini ossa, vasi sanguigni (distorsioni, strappi muscolari, le fratture)

·         Dolore viscerale: proviene dagli organi interni e dalle cavità viscerali. Il dolore da infarto miocardico è probabilmente l'esempio più conosciuto di dolore riferito: sebbene la lesione sia localizzata al cuore, il sintomo può comparire nella regione alta del torace come sensazione di costrizione, o può essere avvertito alla spalla sinistra, al braccio o anche alla mano.

DOLORE NEUROGENO o neuropatico: si intende un dolore le cui cause sono un danno o una disfunzione del tessuto nervoso, centrale (cervello, midollo spinale) o periferico (nervi periferici). In questi casi è possibile che l'alterazione interferisca con la capacità dei nervi sensoriali di trasmettere correttamente le informazioni al cervello che, pertanto, interpreta gli stimoli in arrivo come dolorosi anche se non è presente una causa del dolore fisiologica evidente o conosciuta. La sede è di difficile localizzazione e i comuni farmaci analgesici non hanno molta efficacia.

DOLORE PSICOGENO: quando non è possibile dimostrare la presenza di una causa organica o quando esiste un disturbo fisico che può in qualche modo spiegare la presenza di dolore, ma non la sua intensità e la sua durata. Si ritiene che la causa del dolore psicogeno sia correlata principalmente a problemi psicologici. Ogni parte del corpo può essere interessata, ma la schiena, la testa, l'addome e il collo sono probabilmente le più comuni. Il dolore può essere acuto o cronico.


DOLORE ONCOLOGICO : È un dolore cronico legato alla presenza di un tumore, e può essere assimilato a quello delle malattie cronico-degenerative. Inizialmente si presenta come un dolore acuto, ma nel tempo diviene un classico dolore cronico che, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, assume le caratteristiche di "dolore globale", ovvero di vera e propria sofferenza personale che riconosce cause non soltanto fisiche, ma anche psicologiche e sociali, che lo sostengono e lo perpetrano.

 

La postura, essendo il risultato delle nostre risposte a stimoli interni ed esterni provenienti dall’ambiente circostante, è lo specchio del nostro stato di salute e stato d’animo di quel momento. Se proviamo dolore, il nostro corpo tende a contrarsi, a chiudersi verso la parte dolorante come per protezione. Una postura corretta, è stato dimostrato, che aiuta nel momento di dolore acuto e cronico. Lo afferma una ricerca americana della Marshall University, in California, secondo cui la sensibilità al dolore può essere notevolmente ridimensionata grazie ai benefici psicologici indotti da una corretta postura.
Lo studio, pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology, ha reclutato un gruppo di volontari sottoponendoli a due diversi esperimenti. Nel primo i soggetti dovevano adottare una postura di tipo “dominante”, ovvero testa alta e spalle dritte, consentendo ai ricercatori di misurare la loro soglia del dolore. Nel secondo esperimento, gli studiosi hanno invece valutato in che misura e in che modo la postura incideva sul rapporto instaurato con l'interlocutore. Dai risultati è emerso che chi assumeva una postura corretta innalzava la propria soglia del dolore e godeva peraltro di una sensazione di maggior controllo sugli eventi esterni rispetto a chi invece manteneva una posizione ricurva. I dati implicano anche che ad esempio, quando si ha un dolore, sarebbe meglio stare dritti e non raggomitolarsi come in effetti viene spontaneo fare. La postura raccolta infatti può indurci a pensare di non avere il controllo delle nostre sensazioni, e questo a sua volta può avere un effetto negativo di intensificazione della percezione del dolore. Meglio sedersi spingendo il petto avanti e cercando di allargare il torace: il senso di potere e controllo che ne deriva può aiutarci a ridurre la soglia del dolore”.
È probabile che la postura “dominante” abbia come merito quello di fornire un maggior rilascio di testosterone, ormone che aumenta la tolleranza al dolore, riducendo al contempo il rilascio di cortisolo, ormone legato allo stress: “vista l'interconnessione fra effetti fisici e psichici, una buona postura potrebbe anche aiutare a rendere più tollerabile un evento emotivamente stressante. Inoltre queste informazioni possono essere utili a chi si prende cura dei malati, i cosiddetti caregiver: se tendono come ovviamente accade a rendere tutto più facile e meno stressante per il paziente, questo inevitabilmente è spinto ad assumere una posizione di 'sottomissione' e ciò può influenzare in negativo la percezione del dolore. Meglio che sia il caregiver ad adottare posture più 'raccolte' e a lasciare un po' il controllo della situazione al malato che, trovandosi ad avere la sensazione di un maggior 'potere', potrà tollerare meglio il dolore”.

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mar

20

ott

2015

IL RUOLO DEL TRASVERSO DELL’ADDOME NELLA STABILITÁ LOMBO-PELVICA

Uno dei principali obiettivi che il nostro metodo di lavoro si prefigge di raggiungere, per contrastare lombalgie e posture scorrette è il rinforzo del muscolo TRASVERSO DELL'ADDOME. In questo nostro articolo vogliamo spiegarvi perchè diamo tanta importanza a questo muscolo.

L’applicazione terapeutica di esercizi di rinforzo dei muscoli addominali è stato ampiamente utilizzato nella gestione della lombalgia ( Kendall Manniche et al. 1988; Robinson 1992). L’attenzione poi è stata rivolta in particolare al muscolo TRASVERSO DELL’ADDOME, muscolo profondo dell’addome con il presupposto che questo muscolo fornisca stabilità della colonna vertebrale e che, nei soggetti con lombalgia, la funzionalità di questo muscolo sia alterata. (Miller & Medeiros 1987; Richardson et al.1992; Jull & Richardson 1994; Richardson & Jull 1995; O'Sullivan et al. 1997; Richardson et al. 1998). Il contributo nella stabilità spinale, invece, degli addominali superficiali quali retto addominale, obliquo esterno e in minor misura dell’obliquo interno, è correlato alla loro capacità di produrre flessione, flessione laterale e momenti di rotazione così da controllare le forze esterne che causano estensione, flessione laterale e rotazione della colonna. Inoltre, è stato dimostrato che la co-contrazione dei flessori e degli estensori del tronco aumenta la stabilità della colonna vertebrale (Bergmark 1989; Gardner-Morse & Stokes 1998). In uno studio è stato dimostrato che l’attivazione dei muscoli superficiali dell’addome è più alta in specifiche azioni, mentre il trasverso dell’addome risulta essere più “intuitivo” .

Il TRASVERSO DELL’ADDOME origina dalla cresta iliaca, dalla faccia interna delle ultime 6 cartilagini costali, dal foglietto della fascia profonda della zona toracolombare e dal legamento inguinale. Si inserisce nella parte alta della linea alba e sui processi spinosi delle vertebre da L1 a L5. È un muscolo espiratorio, ed è innervato da nervi intercostali, dal nervo ileoipogastrico e ileoinguinale del plesso lombare (L1). Ha un ruolo nel mantenimento della postura. La sua contrazione determina, inoltre, un aumento della pressione addominale, necessaria per sopportare le forze agenti sulla colonna vertebrale durante determinati esercizi.Il trasverso dell’addome ha solo una limitata azione sulla mobilità del tronco.

Attraverso diversi studi volti a contrastare l’ipotesi del ruolo del trasverso dell’addome nella stabilità lombo-pelvica, è stato possibile fornire prove del suo controllo motorio e di sviluppare un modello del suo  specifico contributo sulla stabilità e la sua differente attivazione in questo ruolo rispetto ai muscoli addominali superficiali; questo modello è stato utilizzato per predire i disagi in questo sistema in stato di mal di schiena.

Lo studio quindi si propone di valutare queste evidenze, tramite l’indagine elettromiografica (esame strumentale del muscolo) dei singoli muscoli dell’addome nella elevazione rapida frontale e laterale della spalla attivata dal muscolo deltoide, di un soggetto posto in piedi. Questo movimento rapido della spalla induce una risposta a livello spinale, tanto da provocare una risposta “posturale” della muscolatura addominale. Si è  evidenziato che :

·  Il trasverso dell’addome viene reclutato prima del deltoide;

· L’attivazione della muscolatura addominale superficiale segue quella del deltoide;

· La registrazione elettromiografica del reclutamento del trasverso dell’addome è la medesima in tutti i movimenti dell’arto;

· La registrazione elettromiografica del reclutamento dei muscoli addominali superficiali sia differente a seconda della direzione dell’arto.

Per avvalorare questa tesi si è valutato anche il reclutamento del trasverso dell’addome e degli altri muscoli addominali superficiali con indagine elettromiografica in diversi movimenti (Donna M. Urguhart, Paul Hodges, Trevor J. Allen, Ian H. Story). Questo studio evidenzia come nel portare la parete addominale verso il basso (“ombelico in dentro”) in posizione supina si produce maggiore attività del trasverso dell’addome rispetto al retto dell’addome, dell’obliquo interno e esterno e che l’osservazione del movimento del tratto lombopelvico e dell’addominale può aiutare nella valutazione della performance fisica.

Altri studi evidenziano come il trasverso dell’addome si recluti anticipatoriamente solo in quei movimenti che prevedono una modificazione della stabilità spinale; infatti in movimenti a bassa velocità degli arti inferiori non in grado di attivare modificazioni sensibili alla stabilità spinale, il trasverso dell’addome non viene anticipatamente reclutato.

Concludiamo questo nostro articolo affermando che diversi studi, quindi, confermano che il TRASVERSO DELL’ADDOME ha un ruolo fondamentale nella stabilità della colonna vertebrale tanto che viene reclutato anticipatamente in quei movimenti del corpo (bruschi, veloci o inaspettati) che possono modificare questa stabilità. 

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